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(Intervista di Africa Is Now 12/2019) Testo di Ruba El Melik. Foto di Ibrahim Mohammed. Opere di Almoghera Abdulbagi.
Traduzione di Claudia Avolio.
Tra i vari commercianti e le signore che vendono il tè di al Suq al Arabi, uno dei mercati all’aperto più longevi (e meno raccomandabili) della città, la scena artistica contemporanea di Khartum è in fermento. Nascosta sopra bancarelle zeppe di prodotti, giocattoli, elettronica e vestiti c’è una serie di studi soleggiati. Qui alcuni dei migliori artisti alle prime armi e professionisti creano arte esplorando temi che vanno dalla rivoluzione guidata dai giovani alla femminilità divina della donna africana. Profondamente talentuosi e splendidamente astratti nelle loro espressioni, questi artisti condividono spesso studi nei piccoli uffici di fortuna ospitati negli alti edifici all’interno e intorno al Suq. Un’organizzazione che cerca di amplificare la creatività della scena del Suq è Sol for Change di Rahiem Shadad, una non profit che punta a fornire agli artisti visibilità ed entrate attraverso mostre, esposizioni e gallerie. Rahiem è un curatore che sta ridefinendo cosa significa esporre arte in Sudan; l’ho raggiunto nella sua nuova galleria di al Suq al Arabi.
Perché hai pensato ad al Suq al Arabi come location per la tua galleria attuale?
Non ho mai lavorato con artisti professionisti né ho mai avuto a disposizione più di 20 metri di muro per esibire qualcosa. Tramite un’amicizia in ambito artistico che avevo invitato a una galleria precedente ho incontrato la mia partner in affari Nicole; siamo subito entrati in sintonia e abbiamo avuto le stesse idee riguardo a come fare i curatori in Sudan. Lei mi ha detto che aveva questo spazio-galleria ad al Suq al Arabi e io le ho detto che volevo vederlo. L’ho adorato e così ci siamo detti: Facciamolo!
Quali sfide incontri come curatore?
Partiamo proprio dalle basi: curare [una mostra] in Sudan è qualcosa di quasi inesistente, non ci sono icone da seguire. C’è anche la questione dell’opinione pubblica. Non voglio dire che la maggior parte delle persone in Sudan siano estroverse, ma sono molto… Esigenti quando si tratta di entusiasmarsi. Sono abituate a vedere l’arte come un’expo in cui 50 artisti riempiono l’intera parete senza lasciare un centimetro vuoto. Quello che facciamo è mettere un’opera di grandi dimensioni su un muro senza lasciarvi attorno nulla, così puoi concentrarti sull’opera e vivere la storia dell’artista, e questo è inusuale qui. Perciò ci crea un problema di marketing. Un po’ alla volta stiamo trovando soluzioni a questa sfida.
La location al Suq al Arabi ha un impatto sul modo in cui curate l’arte?
Questa location nel cuore di al Suq al Arabi non è il posto preferito dalla gente qui considerando quant’è caotico e tutto il resto… (ride). L’abbiamo chiamata la “gemma di al Suq al Arabi”, quindi c’è una reale pressione di creare qualcosa che sia tanto super elegante e super ricercato quanto super culturale nel bel mezzo di questo luogo. L’accessibilità è un problema qui, con ingorghi, traffico, gas di scarico, il rumore e tutto quello che vediamo, perciò dobbiamo aggirare tutto questo per riuscire a fornire qualcosa che eguagli il valore dell’opera d’arte.
Pensi che ci sia qualcosa di guadagnato nel trovarsi in questa location?
Sicuramente. Penso che al Suq al Arabi in generale assomigli all’80-90% della verità del Sudan. La diversità che possiede al Suq al Arabi è molto rara da vedere altrove. Basta che ti sieda dalla signora del tè al piano di sotto per vedere qualcuno che è nubiano, arabo, dell’est, del nord e così via. Inoltre al Suq al Arabi è un cuore pulsante per gli affari e il commercio, perciò c’è ogni tipo di interesse e passione; è un posto in cui vengono persone che lavorano sodo. Penso che sia una società underground in sé. Avere persone che passano tra gli ingorghi, i gas di scarico e il rumore fa parte dell’esperienza perché devono riconoscere cos’è il Sudan, cos’ha il Sudan e che questa è la gente sudanese, al 100%. Devi prima riconoscere la persona sudanese e poi metterti davanti all’opera d’arte sudanese; questo è il messaggio trasmesso nella nostra galleria.
Parlando della rete underground che esiste qui, la galleria, gli artisti e gli studi sparsi, immagini che questa rete resterà qui nel Suq? O le persone restano qui solo finché non possono andare da qualche altra parte?
Penso che avere qualcosa in ballo nel Suq che ti richiederebbe di fare un piccolo sforzo in più per raggiungerlo ti faccia davvero apprezzare l’arte che viene creata qui. Ti fa uscire un po’ dalla tua bolla. Riguardo agli artisti, penso che la maggior parte di loro potrebbero affittare uno spazio fuori dal Suq per esporre, ma non credo che lascerebbero gli studi che hanno qui. Perché qui sei davvero a due passi dalla più grande libreria di Khartum, da chi può svolgere per te un lavoro di falegnameria, dal tizio che può realizzarti le cornici… Quindi gran parte degli artisti preferirebbe lavorare qui, è naturale.
Offrendosi di portarmi a visitare lo studio di un pittore nel Suq, Almoghera Abdulbagi, Rahiem mi conduce attraverso una ventosa camminata di cinque minuti in mezzo a una folla di commercianti, acquirenti e venditori. Sgattaioliamo in quello che sembra un edificio abbandonato annidato tra due vetrine e affrontiamo la lunga salita fino all’ultimo piano dove passo attraverso alcune porte con cartelli che indicano cosa si trova all’interno: un avvocato, un consulente, un altro avvocato. Bussiamo all’ultima porta del corridoio, dipinta di un rosso mattone, e siamo accolti da un artista che stava prendendo in prestito lo studio per dipingere. Si era sistemato proprio davanti alla finestra aperta, con le macchine e i suoni dei pedoni che sono laggiù e gli edifici del quartiere finanziario che scintillano appena più in là. Lo studio era splendidamente illuminato dal sole; i muri tappezzati di schizzi e disegni dal soffitto al pavimento. Una serie di dipinti mozzafiato – che avrei visto incorniciati il giorno dopo alla mostra personale di Almoghera – erano appesi intorno alla stanza ad asciugare. In quello studio arioso, dorato e colorato, era difficile trattenere la propria curiosità sull’artista dietro l’arte. Alcuni giorni dopo ho incontrato Almoghera fuori dall’Università di Khartum, dove stava lavorando a un murale in collaborazione con artisti locali.
Raccontami qualcosa del tuo percorso per diventare artista.
A essere sincero, tutta questa cosa dell’arte e della pittura è iniziata piuttosto presto per me, ma non ci ho fatto molto caso perché non c’era nessuno che la insegnasse alle superiori né alcunché che mi facesse pensare di intraprendere la strada dell’arte. Sono finito a cercare di ottenere un attestato in Interior design, ma era un’opzione valida solo attraverso la laurea, così alla fine ho optato per le belle arti. All’inizio è stata dura cercare di instaurare un rapporto con la pittura e il colore, ma ora sto studiando belle arti e pittura in un istituto. Lì sento di avere piena libertà di fare le cose che voglio ed esplorare temi che possano toccare tutti, che abbiano a che fare con la cultura o la società.
Ora che hai questa libertà di creare, come ti approcci alla scelta di un tema per la tua arte?
Per esempio, c’è stata questa mostra alla galleria nel Suq che esplorava la diversità delle donne, o il “femminino divino”. La diversità in Sudan è rigogliosa. Su tutti i livelli – cultura, lingua, tribalismo o anche solo il colore della pelle – e la gente non va d’accordo a causa di sistemi come la politica o il colonialismo che hanno spaccato le nostre comunità e portato razzismo, regionalismo e questo movimento pervasivo verso l’arabismo; tutti vogliono essere “arabi” e dimenticano chi siamo davvero.
Quindi ti consideri un artista politico?
Ogni artista potrebbe essere un artista politico senza per forza appartenere a un partito o a uno schema, ma gli argomenti che trattiamo e le soluzioni che troviamo vengono dalla prospettiva di un artista, da ciò che noi consideriamo giusto o sbagliato. La rivoluzione è riuscita a raggiungere molte vittorie giuste; per anni ci sono state organizzazioni in Sudan che non sono riuscite a concludere nulla per i diritti delle donne e i diritti umani in generale, ma la rivoluzione è stata in grado di ottenerli. Abbastanza incredibile che ci si riferisse alle donne come kandaka, parola riservata alla Regina di Nubia nell’antichità. Perciò si è trovato il rispetto per la donna, ha avuto un posto tra gli uomini, e il suo ruolo è stato definito in modo chiaro [come rivoluzionaria]. Questo mi fa onore: che le donne fossero in prima linea nella rivoluzione e gli uomini abbiano seguito quella guida.
È questo ad averti ispirato?
Sì, tutte quelle cose sono d’ispirazione per me. Per un artista l’ispirazione viene sempre dalla natura che lo circonda, che sia la comunità, la vita a casa, l’istruzione, i suoi nonni… Tutti questi elementi sono i suoi percorsi verso la conoscenza e ciò che lo ispira. L’ambiente ha un’influenza enorme su chiunque, perciò qualunque sia il tuo ambiente, è da lì che ti ritrovi a trarre i temi che tratterai.
Tu lavori fuori dal tuo studio di al Suq al Arabi. Come trovi questa location?
Anzitutto il Suq ti permette di essere vicino alla gente. Inoltre lì sono molto a mio agio perché c’è un’enorme diversità di persone e tribù e vedo diversi temi e questioni discussi ogni giorno. Quindi insomma lì mi trovo molto bene.
C’è una cultura tra tutti gli artisti lì?
Come qualsiasi comunità. Ci conosciamo e abbiamo le nostre diverse sette e unioni. I più giovani di solito si incontrano nei Caffè o si riuniscono per le strade di al Suq al Arabi e bevono dalle signore del tè. Ci incontriamo anche agli eventi, nei suoi musei o gallerie, e così si formano spontaneamente rapporti più stretti. I nostri pensieri e preoccupazioni circa la società e il mondo sono gli stessi, perciò ci sarà sempre qualcuno che aggiungerà qualcosa al tuo punto di vista piuttosto che ridurlo.
Che visione hai in quanto artista sudanese?
Sognerò sempre in grande, ma l’idea è che l’arte possa raggiungere le case di ogni famiglia sudanese e che la gente vi trovi una connessione e le dia valore. Il resto del mondo è già rimasto colpito da ciò che è successo qui; gli artisti sudanesi sono conosciuti nel mondo. Ma non voglio l’attenzione globale che arriva dal mondo, voglio l’attenzione globale che viene dal riconoscimento locale. Voglio che sia la mia gente a farmi conoscere al mondo, questo mi basterebbe.