Resistere allo scomparire: Il ritorno della Townhouse

La storia di uno spazio d’arte al Cairo raccontata con maestria da Lina Attalah…

“Dopo essere stata operativa per due anni in un edificio supplementare in seguito al parziale crollo dell’edificio (tra altre calamità), la Townhouse è tornata dov’era”

* Aprendo il link all’originale, oltre alla bellissima scrittura dell’autrice Lina Attalah che ringrazio, troverete anche una narrazione visuale con le meravigliose foto di Rana ElNemr a cui sono altrettanto grata

di Lina Attalah per Mada Masr (22 giugno 2018). Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio per gentile concessione dell’autrice.

In un’affannosa e incerta giornata estiva al Cairo, ho camminato fino alla galleria Townhouse dal campus dell’Università Americana dove avevo svolto una commissione. È un itinerario che ho fatto spesso quando studiavo all’università, 16 anni fa. 

Nell’autunno del 2012, mi sono intrufolata in un piccolo, umido ufficio al piano terra di via Nabrawy, 10. Era pieno di artisti, curatori e volontari che discutevano su quella che sarebbe poi stata la prima edizione del PhotoCairo, un evento d’arte incentrato sulle pratiche di creazione delle immagini e di cui si sarebbero svolte molte edizioni, l’ultima nel 2017. All’epoca mi sono offerta come volontaria per tradurre in arabo alcuni testi della brochure dell’evento in quello che è stato uno dei miei primi incontri con la traduzione, la lingua e i loro guai. Non ricordo se la mia traduzione è stata usata alla fine. Mi ricordo solo un po’ dell’amarezza che ho provato all’idea che non riuscivo né a produrre traduzioni come si deve né a scrivere bene in arabo. Oggi, considero entrambi degli atti sublimi.

Sono trascorsi anni da quell’incontro; uno dei molti incontri che ricadono fuori dai severi registri di che cosa sia uno spazio e uno dei molti che indicano fino a che punto uno spazio possa essere generativo. Sono stati anni di nuovi PhotoCairo, di nuova arte ai margini del giornalismo, di nuove possibilità ai margini di una scoraggiante realtà nell’Egitto del pre-2011. Sono stati anche anni di sollevazioni, conseguente violenza, rivoluzioni appaiati a golpe militiari e altra violenza.

Per la Townhouse, questi sono stati anni di alti e bassi, passando dall’essere lo spazio pionieristico di una galleria che presentava l’arte e gli artisti fuori dall’egemonia delle istituzioni statali, a uno spazio che era destabilizzato e confuso su cosa l’arte possa fare sulla scia delle rivoluzioni.

Non c’è stato molto tempo per rispondere all’ultima domanda, perché questi sono stati anche gli anni in cui la galleria è stata attaccata e alla fine chiusa del tutto nel 2016 quando l’edificio che l’ospitava è in parte crollato. In un momento in cui molti di noi – noi che eravamo vissuti attraversando l’apogeo della rivoluzione cui aveva fatto seguito il brutale trasformarsi in uno spazio privo di libertà – parlavamo di un crollo emotivo, la Townhouse era letteralmente crollata. È stata sia la perfetta incarnazione che la metafora dell’ambiente che la circondava.

Arrivando a Hussein Basha al Memari, il vicolo perpendicolare a via Nabrawy, ho alzato la testa e ho visto qualcuno che stava innaffiando le piante sul balcone della Townhouse. Stavo giusto per richiamare l’attenzione e chiedere se William [Wells, fondatore e direttore esecutivo della Townhouse] fosse lì, quando l’ho visto dall’altra parte dell’edificio seduto sulla via all’entrata del Factory Space, l’edificio supplementare della galleria quando è stata spostata in seguito al crollo. Stava sorseggiando il suo Nescafe super zuccherato come lo sheikh del vicolo. Uno sheikh khawaga (“straniero”).

E poi ho realizzato. Era di nuovo lì. Il balcone era lì. L’edificio c’era di nuovo.

Il balcone era uno dei veicoli tramite cui si poteva parlare d’arte contemporanea stando comodamente seduti in un quartiere popolare, entro una dinamica che trascende i benefici reciproci diretti: economici per i laboratori e le caffetterie lì intorno, e un’aura di accesibilità e inclusione per la galleria. Attraverso quel balcone, l’esotico mondo dell’arte alta si è normalizzato nel quartiere e i suoi raffinati complici si sono allietati nel calore e nella familiarità di una strada così rilassata che non tradisce nulla delle complesse dinamiche che la legano a questo spazio d’arte. Per persone come me, gli intermediari, il balcone è stato sempre una dimora di convenienza. È attraverso le sue vecchie sbarre in ferro battuto che ho ordinato dozzine di frullati alla banana dalla caffetteria vicina per sfuggire a mostre che non capivo o da conversazioni per me inaccessibili.

Con gli occhi che gli brillano per l’euforia, William descrive il momento in cui i balconi erano stati completati. “La gente sul balcone parlava alla gente giù in strada e un senso di normalità… Era tornato”, ha detto, scandendo le due ultime parole come un insegnante di inglese o, piuttosto, come un narratore che raggiunga l’apice della trama.

Prima di dilungarsi, ha insistito per portarmi a fare un giro dentro alla galleria restaurata dell’edificio rimodernato. Doveva proprio padroneggiare questa visita guidata, considerando tutte le volte in cui l’aveva fatta fare con orgoglio agli artisti in visita e ai vecchi amici della galleria.

Lo spazio della galleria era in effetti tornato, con gli stessi muri bianchi, le stesse mattonelle e le tavole del pavimento in legno, restaurato da campioni recuperati dal team della galleria tra ciò che avevano lasciato i demolitori e con l’aiuto di specialisti restauratori. Ora ospita una mostra site-specific di Malak Yacout inaugurata il 29 aprile in occasione della riapertura della galleria e che s’interroga volutamente su come uno spazio sia formato e plasmato dalle interazioni individuali e sociali (che a loro volta sono plasmate dagli spazi fisici).

Ma il giro che stavamo facendo non era solo una confortante, tangibile reminiscenza di cos’era stata la Townhouse. Era anche in qualche misura disorientante, con noi che continuavamo a vorticare all’interno dello spazio ampliato, spostandoci dai suoi angoli familiari ai suoi territori del tutto nuovi.

All’aspetto piuttosto standard di una galleria white cube si affiancava una sala afosa, protetta da muri spogli di pietra squadrata e un pavimento in legno a eccezione di un curioso rettangolo al centro fatto di vecchie mattonelle bianche e nere. Guardando in alto, un soffitto blu tempestato di stelle d’oro e d’argento mi ha colta alla sprovvista. Mi è sembrato un mistero magico, una stranezza dissonante nel tempo e nello spazio che la circondavano. Per anni, questo spazio era stato trascurato; usato come magazzino dal governo. La Townhouse ci aveva sempre tenuto un occhio, ed era finalmente riuscita ad affittarlo nel 2015. L’anno seguente, durante la demolizione gli operai statali si erano lasciati dietro le stelle che dovevano apparire loro del tutto trascurabili dopo averle buttate giù dal soffitto e, ancora una volta, il gruppo della Townhouse si era fiondato a raccoglierle.

William racconta la storia in modo delizioso. Abbiamo stabilito che è un bravo narratore. È stato il suo modo di resistere a una certa impossibilità, a una certa invisibilità imposta alla Townhouse. Parla di una perdita nel potere delle nostre voci, di uno scomparire negli ultimi anni. Lo paragona a qualcosa che ha percepito nell’aggrovigliarsi di Mada con la scena culturale; anche un certo scomparire. Chiede se ho letto l’ultimo pezzo di Peter Hessler sul New Yorker riguardo Morsi, il gatto. Era una storia che parlava di andare e venire dalla città, una storia sulle cose che finiscono, per bocca di qualcuno che viveva comodamente dall’altra parte dell’oceano con la sua famiglia, nel silenzio in cima a una collina, dopo cinque anni al Cairo.

A differenza della storia di Hessler, quella di William era una storia che parlava di trionfo, una di cui voleva che scrivessimo “perché la gente sappia che siamo vivi”.

“Tutti continuano a venire da me, scioccati nello scoprire che siamo tornati. Abbiamo tenuto vivo questo luogo e organizzato mostre per due anni,” dice, “è come se la gente avesse bisogno di uno schiaffo, qualcosa in faccia che le dica che la Townhouse è tornata, che era già di nuovo qui, ma ora è tornata fisicamente”.

***

Tutto ha avuto inizio nelle cupe, prime ore del 6 aprile 2016, quando l’edificio è in parte crollato a causa di danni idraulici e costruzione abusiva. Nei giorni successivi inquilini dell’edificio si sono scontrati col personale della polizia brandendo documenti ufficiali che provavano che l’edificio poteva essere restaurato, contro la forza bruta di cui erano armati i poliziotti. Sono stati giorni altalenanti tra speranza e disperazione.

L’indomani, il gruppo della galleria è andata al matrimonio del collega e artista Ayman Ramadan in un villaggio fuori dal Cairo, tutti equipaggiati con la loro musica, gli abiti, le cravatte e l’idea che forse non era detta ancora l’ultima parola.

Il giorno dopo, in seguito a un ultimatum della polizia di vuotare l’edificio, il gruppo – insieme ai volontari che avevano ascoltato i loro richiami sui social media – hanno formato una catena umana che si estendeva dal terzo piano dell’edificio crollato fino al Factory Space, vuotandolo di opere d’arte, libri, documenti e mobili che avevano costituito la vita e l’archivio della galleria allora diciottenne.

Ventiquattr’ore dopo la Townhouse era tutta allestita nel Factory Space: la biblioteca accanto allo spazio espositivo; lo spazio dell’ufficio lì a lato; e, in un angolino in fondo a sinistra, il piccolo ufficio del direttore. Questo, insieme alla notizia che erano stati ottenuti ulteriori documenti che provavano che l’edificio era in sicurezza ed era in diritto di essere restaurato, ha aggiunto un nuovo barlume di speranza all’idea che non era ancora detta l’ultima parola.

Il giorno seguente, gli inquilini e il gruppo della Townhouse hanno visto gli operai, scortati dal personale di polizia munito di AK-47, divellere pavimenti, scardinare finestre e porte e rimuovere balconi. Tutti i beni sono stati caricati su dei camion che gli abitanti hanno visto poi andarsene con calma.

Mesi prima, nel dicembre del 2015, sette funzionari di diverse autorità tra cui l’Agenzia della sicurezza nazionale, hanno fatto irruzione nella Townhouse ordinandone la chiusura. La mossa è stata preceduta da attacchi simili a realtà culturali del centro del Cairo. La galleria aveva appena riaperto nel febbraio dell’anno seguente, ripristinando le attività con prudenza, prima che il crollo portasse con sé una nuova dura prova.

Come conseguenza, l’aspettativa che la Townhouse si ponesse alla guida nella battaglia per restaurare l’edificio è stata disattesa, probabilmente per paura che ciò potesse rallentare il corso delle cose.

Invece l’edificio è stato rimesso in piedi dal lavoro collettivo dei suoi inquilini, dopo che una commissione specializzata lo ha visitato e ha dichiarato che era sicuro poco dopo il crollo, stabilendo la legalità del restauro.

Con la deliberata decisione della Townhouse di non prendervi parte, chi abitava l’edificio ha formato una commissione prendendosi la responsabilità legale per procedere al restauro. Questa comprendeva raccogliere i permessi necessari e pagare le spese legali. Gli inquilini si sono anche addossati le spese per il restauro, come avviene di solito con gli edifici danneggiati che fanno capo a vecchi contratti d’affitto – i proprietari in genere preferiscono vedere i loro edifici crollare perché possono avere maggiori guadagni dal terreno.

Questo è stato quasi il caso con l’anziana padrona di casa dell’edificio della Townhouse, Kamilia Saleh, che alla fine ha ceduto al verdetto ufficiale a favore del restauro dell’edificio. Si è accontentata di avere quattro nuovi inquilini che avrebbero pagato affitti più alti dopo il restauro (in base alla nuova legge sugli affitti passata nel 1996 che porta gli affitti ai tassi di mercato con contratti a tempo determinato).  

Tuttavia la padrona dell’edificio non ha ancora pagato nessun conto per il restauro, malgrado il suo dovere legale di contribuire. Invece ogni inquilino ha pagato una quota corrispondente allo spazio che occupavano. La Townhouse ha pagato per i suoi quattro appartamenti, una ditta di apparecchi elettronici ha pagato per un appartamento, cinque residenti per i rispettivi appartamenti, e otto laboratori e tre magazzini per i propri spazi, inclusi un posto per l’assistenza alle auto e una caffetteria.

Non è stata l’immagine tutta rosa e fiori di un lavoro della comunità come piacerebbe pensare. Non ci sono state riunioni municipali che instillassero una pratica di democrazia dal basso, ma incontri più tranquilli nei laboratori, in cui si è negoziato su chi poteva pagare cosa. Tutti, però, hanno messo in moto ogni possibile contatto per facilitare il processo. Ognuno l’ha presa come opportunità per ristrutturare i propri spazi e ricominciare da capo.

Alla fine, nonostante tutti gli ostacoli – dal saltuario desiderio della padrona di vedere l’edificio restare piatto, al rifiuto delle autorità di fornire elettricità e acqua e all’incessante prosciugamento delle finanze, l’edificio è stato ritirato su. Da giù lo guardo, sedendo in silenzio tra la sua nuova vernice grigia, nel suo vicolo rilassato  a quest’ora del giorno, e io e William continuiamo la nostra conversazione.

***

Tornati indietro all’entrata del Factory Space, William mi conduce attraverso le sue aspirazioni in programma per gli anni a venire, ora che il nostro giro vero e proprio è terminato.

Gli spazi al piano di sopra diventeranno studi per artisti; devono ancora essere ristrutturati ma la Townhouse sta contemplando l’idea di lanciare una campagna di crowdfunding per raccogliere i soldi necessari. La logica dietro a questa mossa  va in due direzioni: riguarda sia gli artisti emergenti che il pubblico emergente.

“Il crollo ci ha costretti a passare all’azione rispetto ai discorsi che avevamo fatto. Eravamo ben consapevoli che dal 2011 al 2016, soprattutto nel 2015 con l’attacco, ci sono stati dei cambiamenti nell’infrastruttura del campo culturale. Potresti continuare a essere ciò che sei come istituzione e scomparire lentamente. Così abbiamo cercato di soffermarci su ciò che stava accadendo,” mi dice parlando contro un formidabile sottofondo sonoro di vento che fruscia tra le foglie del gelso davanti all’entrata dello spazio.

Una cosa su cui si sono soffermati sono i nuovi arrivati nella zona, il nuovo potenziale pubblico che la Townhouse si sarebbe fatta scappare se il gruppo fosse rimasto a lavorare fuori dagli uffici del loro edificio (non tutto il male viene per nuocere?). William diceva che sono nella tarda adolescenza, fratelli di gente impegnata nella rivoluzione del 2011. Non sono apertamente politicizzati, ma sembrano contro le autorità e le norme sociali vigenti. Sono rilassati e boriosi nel buttare lì battute azzardate con disinvoltura, come gridare di punto in bianco “baladeya, baladeya!”.

“Baladeya” è il termine arabo che indica il comune e viene tipicamente gridato per avvertire che dei funzionari stanno per prendere d’assalto una strada e tentare di disfarsi delle caffetterie e dei venditori senza licenza. A William interessano le reazioni di questi giovani all’arte che hanno guardato – anche con un certo piglio – negli ultimi due anni di attività della Townhouse nel Factory Space.

Poi ci sono gli artisti sui vent’anni, che si sono formati attraverso molteplici forme d’istruzione alternativa tra cui MASS Alexandria e l’Home Workspace Program di Beirut solo per citarne due, e che si sono avvicinati alla galleria per potenziali mostre.

“Anche se mi fanno pensare così tanto a persone con cui lavoravo 20 anni fa, non operano nello stesso contesto. Non hanno per forza conversazioni con la società o con la città; hanno a che fare con cose che sono molto più interne, le loro esperienze personali, all’interno di strutture collaterali,” riflette William. Sente anche che c’è un certo “ritorno al tattile, al lavorare coi materiali”. Lo definisce un ritorno perché c’era un periodo in cui gli artisti lavoravano a opere dalle grandi dimensioni che non potevano trasportare con facilità, e quindi solo gli elementi video e fotografici di queste opere hanno viaggiato, coi video e la fotografia che di conseguenza sono diventati poi media più di moda. Per lui gli studi una volta aperti diventerebbero spazi che favoriscono la produzione e le conversazioni per questi artisti, oltre al coinvolgimento di questo nuovo pubblico.

Con gli occhi su questo presente e sul futuro che potrebbe contenere, ci sarà anche da lavorare sugli archivi della galleria che, oltre a essere una sensibilità costante, è naturalmente riaffiorata in superficie alla luce del crollo.

Nella sua conversazione con William pubblicata su Bidoun, la scrittrice Yasmine El Rashidi ha tirato in ballo il fatto che alcune persone considerano William un gatto dalle nove vite per essere sopravvissuto a tutto questo (e c’è anche altro oltre all’attacco e al crollo). Non so cosa lui abbia fatto di preciso con quel riferimento, e se è per questo poi che gli è piaciuto il pezzo di Hessler che si riferiva anch’esso a un gatto superstite. Ciò che appare chiaro è che lui è vivo e il suo luogo lo è altrettanto, come lo erano quando li ho incontrati per la prima volta 16 anni fa. Stanno solo aspettando una certa reciprocità verso la loro vivacità, che sia da parte di vecchi frequentatori del posto o di persone ancora da scovare.

La Townhouse è tornata. E noi, invece?

Lina Attalah è la Founding chief editor di Mada Masr, “organizzazione mediatica in Egitto interessata a produrre un giornalismo intelligente e coinvolgente, e più in generale a riesaminare il ruolo dei media rispetto al proprio pubblico”

Questo è il sito della Townhouse Gallery

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