L’intervista di Anna Seaman all’artista Mohammed Ahmed Ibrahim

Con la sua splendida intervista, la giornalista culturale Anna Seaman ci porta nello studio dell’artista Mohammed Ahmed Ibrahim…

(di Anna Seaman per Selections Arts (27/02/2019). Traduzione di Claudia Avolio per gentile concessione dell’autrice.)

Mohammed Ahmed Ibrahim è uno dei più importanti artisti degli Emirati Arabi Uniti. Ha trascorso la sua vita esplorando la land art e nutre un profondo interesse per la materialità e l’astrazione della forma. Sono andata a trovarlo nel suo studio di Khorfakkan per scoprire il suo santuario interiore.

Siamo seduti qui nel suo studio e nella sua casa, quasi all’ombra delle montagne di Khorfakkan. Ci può parlare del suo rapporto con l’ambiente naturale e di come esso ha ispirato il suo lavoro?

Fin da piccolo sono stato sempre curioso di tutta la natura. Andavo in campeggio, mi facevo la mia tenda e trascorrevo molto tempo da solo. Quando sei solo in mezzo alla natura instauri un dialogo con te stesso. Sentivo suoni, parole che venivano dalle montagne, rocce, pietre, piante e creature. Credo che questa sia stata la parte della mia infanzia ad aver avuto la maggiore influenza su di me.

Come ha trasformato queste esperienze in arte visiva?

Credo sia avvenuto in modo spontaneo per via di questo mio rapporto con la natura. Ho iniziato a notare la mia posizione al riguardo intorno al 1983 quando ho cominciato a selezionare certe pietre nelle zone di montagna e a capovolgerle. Mi sono accorto che il colore era più chiaro sotto e girandole e rigirandole mi sono reso conto che per quelle pietre io ero la prima persona e che stavo lasciando una traccia visibile. Ripensandoci, credo che sia stata la mia prima performance anche se all’epoca non ne ero consapevole.

Quando ne è diventato consapevole?

Be’, nel 1989, nelle mie conversazioni con Hassan Sharif (importante artista emiratino scomparso nel 2016, ndT), mi ha fatto notare che stavo facendo della land art. Quando l’ho identificata come tale, mi sono messo a cercare informazioni al riguardo e mi sono reso conto che non ero il solo. Una delle mie scoperte all’epoca fu [l’artista statunitense] Robert Smithson.

Che dipinga, disegni o faccia sculture, la sua pratica ruota intorno alle forme astratte, che ha descritto in precedenza come se fossero una sorta di marcatura primordiale. Come arriva a queste forme?

All’inizio mi interessavano le forme di tutto ciò che mi circondava, e a forza di guardare ho iniziato a vedere sempre più simboli. Per esempio, un’automobile per me è diventata una linea che unisce due cerchi, proprio come un paio d’occhiali ha la stessa forma. Ho trascorso molto tempo disegnando e ripetendo questi simboli fino al punto in cui le mie mani lavoravano ma il cervello stava pensando a qualcos’altro e i simboli, semplicemente, fluivano dalle mie mani.

Quindi in un certo senso direbbe che il suo lavoro è una meditazione sulla ripetizione?

Sì, quando trascorri così tanto tempo a fare una cosa, raggiungi luoghi nuovi nella tua mente. Il mio lavoro è di certo una sorta di meditazione per me, e riguarda anche una scoperta all’interno della mia stessa coscienza. Per esempio, prendo molte forme da ciò che vedo quando chiudo gli occhi. Pensiamo che appena chiudiamo gli occhi la nostra visione si interrompa, ma non si interrompe mai. C’è uno spazio tra la palpebra e il bulbo oculare ed è in quello spazio che io trovo le mie forme.

Prende in considerazione il suo pubblico?

Il pubblico è di certo importante, ma non è la mia priorità assoluta. Anzitutto, sto realizzando, facendo, creando e seguendo una chiamata interiore. C’è qualcosa dentro di me che mi guida a fare ciò che faccio e credo che ad apprezzarmi davvero sia un pubblico di specialisti: è a loro che voglio mostrare il mio messaggio.

Che intende per ‘specialisti’? Ha l’impressione che il pubblico abbia bisogno di avere una conoscenza da specialisti per capire la sua arte?

Non si tratta di capire: tutto sta nel sentire. Idealmente, mi piace che qualcuno venga a vedere il mio lavoro e poi se ne vada senza porre domande. Io non voglio dire nulla, voglio solo che qualcuno legga l’opera e ne prenda ciò che vuole.

Ma lei ha fatto cenno al suo messaggio: di che messaggio si tratta?

Possiamo leggerci l’un l’altro senza parlare. Solo attraverso l’opera d’arte. Instauriamo un dialogo, insieme, attraverso l’opera d’arte: la nostra conversazione diviene tale per suo tramite.

Le sue opere che colpiscono di più sono forse le sculture dai colori brillanti realizzate con found material. Perché sceglie questi colori?

Khorfakkan è circondata su tre lati dalla montagna che impedisce di scorgere il tramonto. Io sono cresciuto coi pomeriggi che si riempivano di un tipo diverso di luce, non un’ombra o un tramonto, ma una luce grigia. Quando alla fine ho visto la luce di un tramonto, è stata come un’esplosione nei miei occhi: è per questo che mi piace lavorare coi colori brillanti.

E così torniamo a parlare della montagna. Ci va ancora?

Certo, ogni volta che posso. Mi piace camminare, a volte per ore. Raccolgo rami, pietre e pezzetti che richiamano la mia attenzione. E ci vado anche d’estate. Mi piace sentire l’umidità e l’ambiente ostico, mi fa sentire vivo.

Può descriverci la sua routine quotidiana nel suo studio?

Posso trascorrere dalle 10 alle 12 ore al giorno nel mio studio, ma nessun giorno è uguale all’altro. A volte inizio la giornata con una tazza di caffè e la colazione, altre volte vado diretto nel mio studio. Il lavoro che svolgo dipende dal mio umore. Mi piace ascoltare musica, ma non ho una tabella di marcia specifica.

Ci sono nel suo studio oggetti personali di cui sente di non poter fare a meno per lavorare?

[L’artista prende un oggetto sferico che sembra essere un ammasso di cavo intorcigliato e filo – si veda l’immagine centrale nel link all’originale]

Qui dentro  ci sono tre o quattro frammenti di pietre che ho raccolto dai monti Hatta nel corso della mia residency con Art Dubai in cui ho lavorato con Munira al Sayegh. Tornando a Dubai abbiamo creato delle storie sulle pietre. All’epoca vivevo nella casa di Hassan Sharif; ho avvolto le pietre con del cavo e le ho messe sul suo tavolo. Allora abbiamo iniziato a creare storie anche per quelle pietre. Poi io ho preso un po’ del suo materiale e l’ho aggiunto al cavo che avvolgeva le pietre. È diventato un oggetto a cui tengo molto, soprattutto dopo che Hassan Sharif è morto. Sento che contiene un po’ del suo spirito.

Lei parla del suo materiale quasi come se avesse una personalità – sarebbe giusto dire così?

Io lavoro con quello che ho intorno, ma scelgo soltanto ciò che richiama la mia attenzione. Ho trascorso tutto il tempo ad occuparmi del mio materiale perché sento che mi appartiene. Ma in generale, il linguaggio che scelgo di usare col mio materiale, coi miei oggetti, con le mie forme e i miei colori appartiene a tutti.

Una versione di questa intervista è apparsa su Selections, Sanctuaries #47,  pagg. 86-93

Anna Seaman è una rinomata giornalista culturale britannica il cui lavoro si concentra sulle arti visive.

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