Come notti stellate di idee, le interviste-luce ci rischiarano la mente, donandoci illuminazioni improvvise. A farci luce oggi è il bellissimo collettivo Medrar (Il Cairo, Egitto)
Claudia Avolio
“Dia, hai un bellissimo nome legato alla luce!”
“Grazie! Sì be’ ce l’hai anche tu nel tuo nome: Clau-dia…”
Anche se la parte finale del mio nome in arabo non è scritta come il suo, mi ha accordato la stessa luce, di cui l’intervista si è subito rivestita…
Dia Hamed è un artista che ha fatto un sacco di cose e ancora oggi se gli chiedi: “Sei un artista?” tituba chiedendosi se possa definirsi tale. Ha realizzato pupazzi, fatto teatro sia come attore che come assistente alla regia, fa digital art, installazioni luminose e chissà quanto altro: “Sì, Dia, sei un artista!”, gli confermo ridendo e piena d’ammirazione.
In lui e nel co-fondatore Mohammed Allam hanno trovato acqua e nutrimento i primi semi che avrebbero portato alla nascita del collettivo Medrar, nel 2005. Tutto nasce col Cairo Video Festival, che come si legge sul loro sito ha rappresentato “il primo contributo di Medrar [dato] alla scena artistica nonché il progetto tramite il quale lo stesso Medrar è stato in seguito fondato”.
Nel 2010 conoscono quelli di Vernissage TV, collettivo svizzero che gira alla scoperta dell’arte contemporanea. Sono entrati in contatto con Pro Helvetia al Cairo seguendo un paio di workshop e iniziando a capire di più del loro lavoro.
Sognavano di avere un programma tutto loro su un canale satellitare indipendente per diffondere eventi d’arte contemporanea. Ci hanno provato, negoziando su vari aspetti, ma non si sono trovati in armonia con chi doveva avere l’ultima parola, e hanno cercato un’altra strada.
Così hanno scelto Youtube, aprendo il loro canale, e all’epoca il focus del loro lavoro era il Cairo.
Tra il 2011 e il 2012 un gruppo di lavoro formato da amici bravi a girare video e a montarli muniti di piccole telecamere si sono cimentati nel documentare quello che stavano facendo gli artisti loro amici, in modo informale, raccogliendo così delle riprese per catturare i ricordi di quanto stava avvenendo intorno a loro.
Nel 2012 la giornalista di Egypt Independent, Mai al Wakil, si è mostrata entusiasta del loro progetto, tanto da guidarne poi la direzione. Col tempo si sono procurati l’attrezzatura necessaria, diventando sempre più professionali.
La parola Medrar è un bellissimo aggettivo arabo che indica qualcosa che scorre abbondantemente, “zampillante”. “Non descrive la qualità, ma la quantità: un flusso”, mi spiega Dia, e poi lo hanno scelto perché “è facile da pronunciare nelle altre lingue, in spagnolo il verbo medrar indica lo svilupparsi, il crescere, in inglese Med-rar trasmette graficamente subito un’idea di media unita al formato di file di archiviazione rar“.
Ecco il collettivo seguire l’intuizione di affidarsi a un segno inconfondibile per la propria sede che dicesse: “Medrar è qui”. Un logo sarebbe stato troppo commerciale, così scelgono un’espressione artistica: una piccola insegna con un dipinto. In una piéce teatrale araba familiare a tutti, Al Motazawegoon (“Le coppie sposate”), sul muro c’era l’immagine di un uomo, Geddo 7awlan (“nonno con gli occhi storti”), il loro amico Ahmed Sabry ha scelto di rifare quell’opera: tutti lo conoscono e tende a suscitare gioia nelle persone che ridevano sempre passando davanti alla sede di Medrar. L’idea era di far sorgere domande nei passanti e dare subito la sensazione che lì c’è qualcosa.
Dia continua raccontandomi di aver notato l’approccio curatoriale degli altri collettivi o gallerie, mentre con Medrar volevano creare uno spazio libero, senza una visione speciale o criterio tematico per mostrare le opere. Uno sguardo aperto, inclusivo, che si mette di lato, in cui a voler essere mostrata è solo la qualità intrinseca dell’opera. Proprio per la loro rappresentazione limpida delle opere, può capitare che professionisti del settore non colgano l’intenzione dietro al lavoro di Medrar. Così oggi il collettivo sente di essere rimasto neutrale a lungo e sta pensando di creare una comunità per i critici tra prospettive e visioni, rappresentando le stesse cose ma invitando curatori esterni per evolversi al passo con le pratiche locali che vedono intorno a loro.
Il team è formato dai due co-fondatori, Dia Hamed e Mohammed Alam, la coordinatrice Carolina Landi, giovane italiana che per Dia ha portato un’ondata di freschezza offrendo la propria visione e capacità lavorativa, e tra gli altri ci sono l’amministrazione e diversi progetti ognuno col suo team: Roznama, Cairo Video Festival, Medrar TV, Open Lab Egypt (qui trovate nomi e ruoli di chi anima il collettivo).
Oltre che in Egitto, hanno potuto seguire progetti legati all’arte nel resto del mondo arabo su commissione; adesso stanno ripensando all’idea del crowdfunding.
Perché promuovere l’arte araba attraverso i video? Quando hanno iniziato questa loro videodocumentazione erano gli unici a farlo e ancora oggi non ce ne sono poi così tanti. La cosa più importante per loro è raccogliere un database: stanno aggiungendo videocollezioni di altre istituzioni per rendere l’arte contemporanea degli ultimi 15 anni nella regione accessibile per i curatori, per avere un archivio a cui si possa accedere. Ci sono moltissimi lavori e devono per forza di cose fare una selezione e identificare cosa è interessante per loro documentare ed esprimere apertamente quel loro criterio di scelta.
L’intenzione si lega a indagare questa domanda: cosa può dare un video come medium nello spazio di una galleria? Questo medium cosa può fare in un’epoca in cui ogni cosa viene documentata dai video delle persone?
In copertina la sede di Medrar al Cairo con l’opera di Ahmed Sabry. Foto di Mohamed Helmy. Courtesy of Medrar